Quanti universi ci sono, esattamente?

Il secolo scorso è stato dominato dalla tecnologia. Quello attuale lo sarà ancor di più. Tuttavia, è stupefacente constatare il disinteresse, e la conseguente ignoranza, per le scienze fisiche. Le quali hanno già oggi posto le premesse per modificare radicalmente la nostra concezione del mondo e dell’umanità in generale. Le religioni e le filosofie dovrebbero adeguarsi. Ma non lo fanno. Gli schemi mentali di ragionamento sono quelli di 2500 anni fa, appena modificati dalla dualità cartesiana, e da alcuni studiosi (Russell, Wittgenstein, Gödel) che hanno preteso, riuscendo solo marginalmente, di seppellire la metafisica per sostituirla con la fisica e la matematica. Ciò che segue non pretende di essere un trattato di fisica, ma un divertissment pensieroso… di fine settimana. Dunque. Tutti hanno sentito parlare di teoria della relatività. Di big bang. Di buchi neri. Molti di teoria quantistica. I più colti, di teoria delle stringhe. Ma manca, a livello generale, una diffusione capillare del significato di queste teorie. Prendiamo, ad esempio, lo studio dell’universo (che oggi si raggruppa all’interno della disciplina detta cosmologia).
 Nella teoria einsteiniana era contenuto un “modello” di universo, cioè una rappresentazione matematica dell’universo preso come un tutt’uno. Le “soluzioni” di tali equazioni erano due, e fornivano due possibili scenari: a) un universo in espansione, illimitato, oppure b) un universo di dimensioni finite, ma privo di limiti. Nel 1928 Edwin Hubble dimostrò scientificamente che l’Universo a noi visibile si espande. Seguì una mole di studi imponente, che sfociò trent’anni dopo nella teoria del big bang. Cioè quel gran botto iniziale che diede origine al nostro universo 14 miliardi di anni fa circa. Sorvolo sui dettagli tecnico-matematici, che sono difficili e tutto sommato, per un fine settimana, poco importanti. Ciò che conta è che oggi ci sono sostanzialmente quattro modelli, o livelli, di rappresentazione dell’universo. Sono teorie, vero. Ma suscettibili di dimostrazione scientifica in senso popperiano: perché fanno predizioni misurabili e perché sono, di conseguenza, falsificabili. E, per quanto possano sembrare incredibili (in fondo, anche la relatività, quando apparve, fu dai più accolta con scetticismo, anche dagli scienziati – perché ribaltava conoscenze consolidate, come per esempio il fatto che il tempo è relativo, cioè si allunga e si accorcia a seconda della velocità con la quale si muove l’osservatore che guarda il proprio orologio), le loro implicazioni sono – senza esagerazione – sconvolgenti. Il modello più semplice (che fa parte del cosiddetto cosmological concordance model) è detto Livello I. Ipotizza che oltre l’orizzonte cosmico ci siano altre regioni, dominate dalle stesse leggi fisiche che governano il nostro universo, in uno spazio infinito, con una distribuzione uniforme di materia. Conseguenza: se lo spazio è infinito, e la materia pure, allora in tale spazio tutti gli eventi possibili e immaginabili si verificheranno, in un punto o nell’altro, in un tempo o in un altro. Quindi anche l’evento ‘me stesso’: e se ne esiste uno, allora ne esistono infiniti… Se ne conclude che ci sono infiniti mondi con infinite copie identiche di ciascuno di noi, infiniti mondi in cui le copie sono leggermente differenti (per esempio, il me stesso ha i capelli neri, anziché castani), infiniti mondi dove le copie si differenziano sempre più, e così via. Fantascienza? Mmm. Forse. Il cosmological concordance model è denominato così proprio perché le previsioni che fa concordano molto bene con le misure sperimentali del nostro universo, ad esempio con la radiazione cosmica di fondo, residuo fisico del big bang. Ammettiamo, sia per senza concedere, che il Livello I sia quello vero. Quali sarebbero le implicazioni filosofiche? Implicazione prima: l’uomo non è il solo essere pensante dell’universo. Anzi: ci sono infinite umanità sparse per il multiverso. Con ciò va a farsi benedire l’idea che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza della divinità. E naturalmente rischia di andare a farsi benedire l’idea stessa di Dio. Non solo. Appare una stranissima forma di immortalità, mia e vostra: quella costituita dalle infinite copie di noi stessi che ci sono oggi, e che ci saranno in eterno, in un numero infinito di mondi, nel passato nel presente e nel futuro… e perciò viene spontaneo domandarsi: ma allora, che cosa significa il tempo veramente? Julian Barbour ha una sua idea: il tempo non esiste. Infatti, crede di poter dimostrare che la descrizione matematica dell’universo possa fare a meno della variabile tempo… Gli ho mandato una mail, sostenendo – povero tapino – che forse adoperiamo un linguaggio per descrivere l’uni-multi-verso (la matematica) che non è adatto allo scopo. Mi ha risposto, bontà sua, con un diretto al mento stile Tyson: consigliandomi di leggere un articolo di Max Tegmark, dove si sostiene l’ipotesi MUH (Mathematical universe hypothesis): e cioè che la realtà fisica è una struttura matematica… Qualunque cosa si possa pensare di queste teorie, non si può non concordare su un punto: ne sappiamo ancora troppo poco. L’universo, i multiversi (se ci sono), lo spazio, il tempo vanno ancora investigati prima di poter arrivare a una qualche conclusione sensata… certo è che fino ad oggi, dal punto di vista filosofico, siamo stati come ciechi che pretendono di descrivere i colori dell’alba… forse sarebbe tempo di modificare l’approccio… almeno fino a lunedì.

tratto da: http://www.thefrontpage.it/

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